Open data: how mobile phones saved bananas from bacterial wilt in Uganda

As disease threatened crops across the country, an initiative from the government and Unicef was able to communicate fast to stop it – demonstrating how open data can transform development

Bananas for sale at a village market in Uganda.

Bananas are a staple food in Uganda. Ugandans eat more of the fruit than any other country in the world. Each person eats on average 700g (about seven small bananas) a day, according to the International Food Policy Research Institute, and they provide up to 27% of the population’s calorie intake. But since 2002 a disease known as banana bacterial wilt (BBW) has wiped out crops across the country. When plants are infected, they cannot absorb water so their leaves start to shrivel and they eventually die.

It’s easily spread by tools like pangas and knives not being cleaned after chopping infected crops, and bees transferring nectar between plants. Some farms have lost up to 90% of their yields, with estimated national loss as being up to $360m (£235m) per year.

Many have had to destroy their plantations, as Desiderio Lwanyaga, a farmer in Kyabazala, told IRIN: “I lost 10 acres of banana to the disease … I had to abandon banana farming for a while, though it was our source of food and money.”

The Ugandan government drew upon open data – data that is licensed and made available for anyone to access and share – about the disease made available by Unicef’s community polling project Ureport to deal with the problem.

Ureport mobilises a network of nearly 300,000 volunteers across Uganda, who use their mobiles to report on issues that affect them, from polio immunisation to malaria treatment, child marriage, to crop failure. It gathers data from via SMS polls and publishes the results as open sourced, open datasets.

The results are sent back to community members via SMS along with treatment options and advice on how best to protect their crops. Within five days of the first SMS being sent out, 190,000 Ugandans had learned about the disease and knew how to save bananas on their farms.

Via the Ureport platform, the datasets can also be accessed in real-time by community members, NGOs and the Ugandan government, allowing them to target treatments to where they we needed most. They are also broadcast on radio shows and analysed in articles produced by Ureport, informing wider audiences of scope and nature of the disease and how best to avoid it.

Such initiatives are inexpensive to run and depend on little to work well: minimal technology, the commitment to publishing data openly and an engaged community. Keeping BBW at bay is still a challenge in Uganda, with awareness-raising and support from policymakers crucial to ongoing progress. Open data produced by Ureport will underpin these initiatives, just as it will underpin many other development interventions in the effort to meet sustainable development goals.

Global leaders can enable and promote beneficial uses of open data around the world, and drive development progress more broadly in several ways. The transparency movement increasingly calls for donors to publish what they fund. In turn, donors demand more from recipients to show the impact and effectiveness of the programmes they support.

As more data like this is made open, it can be used by developing country governments as a tool for evidence-based policymaking, helping them to respond to challenges and rely less on aid agencies or donors.

A report published this week by the Open Data Institute (ODI) features stories from around the world which reflect how people are using open date in development. Examples range from accessing school results in Tanzania to building smart cities in Latin America.

Donors can embed open data into funding agreements, ensuring that relevant, high-quality data is collected to report against the SDGs. Funders should mandate that data relating to performance of services, and data produced as a result of funded activity, be released as open data. This should be addressed at the Third International Conference on Financing for Development in July 2015.

Finally, groups across the public and private sectors need to work together to build sustainable supply and demand for data in the developing world. The ODI supports UN Secretary General Ban Ki-moon’s call for a global partnership for sustainable development data, which would foster global technology transfers, policy development and knowledge sharing.

Anna Scott

ICT per l’allevamento: in Senegal video e SMS per tutelare il bestiame

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Daral Technologies è un progetto innovativo senegalese che nasce dalla necessità di avere una statistica generale nel settore dell’allevamento e dal bisogno di identificare gli allevatori e il loro bestiame, pratica ancora inesistente nel paese. Chi possiede degli animali? Che tipo di animali? In che zona del paese? Rispondere a queste domande, e quindi mettere in atto un processo digitale di identificazione dei proprietari di bestiame e del bestiame stesso, non solo aiuterebbe a creare una statistica del settore, ma aiuterebbe a risolvere il problema dei furti degli animali.

Nel 2007, per esempio, la peste equina procurò due miliardi di franchi CFA di danni in Senegal e la causa principale fu la disinformazione riguardo la prevenzione e la cura della malattia da parte degli allevatori.

Ma come?

Le funzionalità dell’applicazione web e SMS sono tre.
Secondo Amadou Sow, allevatore di etnia Peul e ideatore del progetto, “il primo passo è quello dell’identificazione dell’allevatore attraverso un sistema digitalizzato, al cui nome corrisponde la foto e tutte le informazioni personali come luogo di abitazione, numero di telefono e numero di animali in possesso. “Alla registrazione” continua il pastore, “segue l’attribuzione di un codice identificativo che verrà fissato sugli animali, in modo da essere immediatamente riconoscibili in caso di smarrimento o furto e riconducibili al vero proprietario”.
La mediateca è un’altra funzionalità messa a disposizione dal progetto, con lo scopo di prevenire le epidemie che colpiscono il bestiame e diffondere azioni preventive nelle zone rurali. Questa funzione mette a disposizione una applicazione mobile per cellulari che permette all’allevatore di filmare l’animale che riscontra dei problemi di salute e di inviare successivamente il video nella piattaforma informatica gestita da esperti e veterinari della Direzione dell’allevamento. “Dopo avere stilato una diagnosi del problema”, come spiega il creatore della piattaforma, “gli esperti inviano un messaggio con le cure consigliate per la malattia al centro di riferimento del villaggio da cui il video è stato inviato, diffondendo anche il video iniziale e la diagnosi della malattia negli altri villaggi della zona, al fine di informare gli allevatori riguardo l’esistenza di una determinata malattia”.

Un partenariato pubblico-privato

Il progetto ha stretto un partenariato con il Ministero dell’allevamento Senegalese, il quale, attraverso i dati raccolti, potrà stilare una statistica del settore ancora inesistente, ma di grande utilità per ricavare informazioni utili su uno dei settori più sviluppati del paese.
Un’altra funzionalità del progetto è quella di offrire un servizio SMS al Ministero dell’allevamento per l’avviso e l’allerta di fatti riguardanti i furti di animali, le vaccinazioni, le malattie ecc. Grazie alle schede identificative di ogni allevatore, il Ministero potrà avere accesso ai numeri di telefono e utilizzare la piattaforma come mezzo di diffusione di messaggi urgenti e comunicazioni ad ampia scala. Ma l’allevatore rivoluzionario ha deciso di fare di più e ha stretto un partenariato per il suo progetto con la Microsoft, che fornisce computer, una connessione a internet e training per formare i responsabili locali del progetto nei centri presenti in ciascun villaggio messi i piedi dal progetto Daral Technologies.

Questi centri, inoltre, sono allocati in punti strategici dove, una volta alla settimana, si raggruppano i mercati di animali (i Daral, appunto) con tutti gli allevatori della zona, che avranno la possibilità di entrare in contatto con le informazioni gestite dai centri grazie alla messa in onda dei video in dei maxi schermi visibili a tutti.
In Senegal, e in tutta l’Africa in generale, sono sempre più numerosi i progetti e le iniziative che sviluppano piattaforme web e applicazioni mobile dedicate a implementare il lavoro dei contadini e dei pescatori, in un continente che, secondo il rapporto stilato dall’Africa Progress Panel, ha le potenzialità di sfamare le crescenti popolazioni che risiedono nelle zone urbane e  la domanda di cibo globale. E le cosiddette ICT4Agriculture, cioè l’insieme di innovazioni tecnologiche sviluppate per facilitare l’accesso all’informazione e agevolare la comunicazione tra gli attori che lavorano nel settore primario, caratterizzano di giorno in giorno uno strumento efficace per il miglioramento del settore.

di Elisabetta Demartis – Wired

Prevenire le piogge in Africa con uno smartphone in tasca

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Le reti mobile dei nostri smartphone possono essere utili e non solo per telefonare o restare connessi. In Africa c’è addirittura chi le utilizza per monitorare le precipitazioni piovose. Sapere dove si concentrano le maggiori piogge, poterlo fare in tempo reale, può essere utile sia per questioni legate all’irrigazione delle terre che per motivi di gestione delle acque. Recentemente, infatti, si è scoperto che il segnale radio che connette due telefoni tra loro viene disturbato nel caso di pioggia. Questi dati presi sulla scala di un intero territorio sono in grado di fornire mappe aggiornate sull’intensità delle piogge nelle varie zone di un paese.

Monitorare le piogge grazie ai cellulari

Il consorzio Rain Cell Africa è partito proprio da qui, dall’idea di sfruttare la quantità di dati che i telefoni cellulari sono ormai in grado di scambiare tra loro proprio per migliorare il monitoraggio nei confronti delle piogge. Ed il sistema sperimentato si è dimostrato attendibile nel 95% dei casi. I motivi per cui può essere utile conoscere con un certo anticipo le precipitazioni piovose in arrivo sono molti, dell’irrigazione delle terre, alla gestione delle acque, dall’allerta da dare in caso di nubifragi, alla corretta predisposizione di adeguate misure di sicurezza per prevenire eventuali danni a persone e cose. Il principio alla base del progetto, portato avanti in Burkina Faso, è abbastanza semplice: la pioggia riduce l’intensità del segnale radio trasmesso da due antenne. Una cosa ben nota tra gli esperti di telecomunicazioni.

La connessione tra segnali radio e precipitazioni

Fisicamente due sono gli effetti della pioggia per i segnali radio. In primo luogo, la pioggia stessa assorbe parte del segnale trasmesso dalle antenne. Poi, il segnale viene deviato dal suo originale percorso. Sono questi motivi per cui quando piove il segnale radio può indebolirsi. Conoscono bene queste problematiche tutti i maggiori gestori di telefonia mobile, alle prese con continue misurazioni circa lo stato di salute della rete su cui viaggiano le conversazioni dei loro utenti. Dati preziosi, offerti dalla Télécel Faso, a partire dai quali i ricercatori della University of Ouagadougou hanno potuto sviluppare questo metodo per elaborare alcune mappe delle zone soggette ai fenomeni atmosferici più intensi. In particolare il lavoro è stato svolto prendendo in considerazione i dati relativi alle precipitazioni avvenute nel corso del monsone arrivato in quelle zone nel 2012. Sono stati analizzati i volumi di pioggia caduti nel corso di quel periodo e sono stati comparati con i dati relativi alla qualità del segnale radio in quella stessa frazione di tempo. Nel 95% dei casi questo tipo di misura corrispondeva effettivamente ad eventi atmosferici significativi in termini di precipitazioni piovose misurate con i tradizionali pluviometri. Ed è stata la prima volta che questo risultato è stato dimostrato quantitativamente. Tutti i dati sono riportati dal Geophysical Research Letters journal. Il risultato più significativo resta comunque il fatto di essere riusciti ad elaborare questi risultati sfruttando la rete mobile esistente sul territorio.

L’importanza di monitorare le piogge in Africa

Il monitoraggio delle piogge è di fondamentale importanza in Africa per molte ragioni. Ricorrere ai pluviometri per elaborare simili misure è non solo costoso, ma anche inefficace in termini di raccolta dei dati. Invece la rete mobile in Burkina Faso copre il 20% del territorio nazionale ed il 90% della popolazione dispone di un telefono mobile. Queste reti, peraltro, si stanno ampliando, specialmente nelle città dove si raggiungono notevoli punte in termini di intensità di scambio di informazioni. Ricorrere a questa ‘rete naturale’ offerta dagli apparecchi mobile dei singoli cittadini sembra la soluzione migliore per elaborare mappe aggiornate delle zone a maggiore intensità di precipitazioni. Il tutto a patto che i gestori delle reti telefoniche vogliano collaborare fornendo i dati preziosi in loro possesso. E gratis possibilmente, ne va del bene di tutti!

di Marco Bennici, “Futuro quotidiano”

Ebola, ecco come si combatte con le mappe in crowdsourcing

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È proprio vero: dalle situazioni di crisi nascono spesso soluzioni profonde e vincenti. Oppure si portano a un livello superiore alcune già esistenti ma che, senza l’emergenza di una specifica fase storica, non avrebbero mai fatto quel balzo.

L’altro giorno ho parlato di Ebola Deeply, il progetto digiornalismo verticale e monotematico messo in piedi dall’ex reporter di Bloomberg ed Abc Lara Setrakian. OpenStreetMap è invece una celebre iniziativa che punta alla realizzazione condivisa, volontaria e dettagliata – attraverso software open source e tool programmati ad hoc come Java OpenStreetMap editor – di mappe. Meno noto è il meccanismo attivato in situazioni come, appunto, le emergenze umanitarie.

In certe zone del mondo quelle di Google semplicemente non esistono e, quando esistono, non sono sufficientemente dettagliate da essere d’aiuto a chi è coinvolto nelle emergenze: operatori umanitari, medici, cooperanti, le stesse autorità governative locali. Spesso, come rivela Co.Labs, è già tanto se risultano le strade. Ma il problema va ben oltre: mancano i nomi dei villaggi e spesso i villaggi stessi. Per non parlare delle città più grandi, punti di snodo dell’epidemia di ebola in corso.

Sierra Leone, Guinea e Liberia oggi. Come le Filippine l’anno scorso, in occasione del ciclone Haiyan. O Haiti nel 2010, col devastante terremoto che ha fatto oltre 200mila morti. Saperedove andare e cosa si troverà a destinazione è dunque un elemento fondamentale per chi lavora sul terreno, spesso senza troppo tempo per documentarsi e senza la necessaria collaborazione delle autorità locali.

D’altronde l’opera di contenimento delle pandemie fa leva esattamente sulla ricostruzione dei movimenti degli infetti e la messa in sicurezza di persone e luoghi da questi frequentati nel lasso di tempo in cui erano appunto considerati contagiosi. Difficile farlo in Africa occidentale. Così come in molti altri quadranti del pianeta.

Ecco perché, all’interno del progetto OpenStreetMap, è operativo da quattro anni un gruppo specializzato battezzato Humanitarian OpenStreetMap Team, meglio noto come Hot. È al lavoro di questidata volontari che si rivolgono sempre più, almeno in certi scenari e momenti, organizzazioni come Nazioni unite, Croce rossa e Medici senza frontiere.

È un’operazione lunga ma essenziale. Da una parte ci sono editor, in ogni angolo del mondo, che traducono in mappe i dati raccolti dalle fonti più diverse, che costituiscono appunto l’altro lato della storia: dispositivi dotati di Gps ma anche immagini satellitaridisponibili o acquistate ad hoc da enti che finanziano Hot o altri tipi d’immagini che arrivano da accordi particolari, come quello con Bing.

In questo modo, il modello di business di Google – che lascia scoperte aree ininfluenti per i suoi affari, ecco perché certe operazioni come la mappatura del deserto fanno un bel po’ ridere – viene agevolmente superato. Certo, si lavora spesso in tempi strettissimi ma a volte il livello di precisione è impressionante, proprio grazie a questo cervello collettivo messo al lavoro.

A parte villaggi, città – è accaduto con Guéckédou, in Guinea, considerata l’origine dell’epidemia, Macenta e Kissidougou – un tema sentito è quello della mappatura delle strade. “Troverai  ovviamente più casi in una città collegata da una strada – racconta Andrew Buck, un volontario che coordina il team diHumanitarian OpenStreetMapdunque i dottori di Medici senza frontiere sapranno dove concentrare i loro sforzi per i controlli successivi e per la sensibilizzazione”.

A volte, grazie al lavoro di volontari sul posto perché i satelliti non sempre riescono a fornire questo genere d’informazioni, si riescono addirittura a indicare le condizioni del percorso: sterrato, asfaltato, sconnesso o regolare? Stesso discorso con i nomi dei villaggi (spesso ce ne sono decine simili nelle stesse zone) o dei quartieri. Tutti dati spuri, che sposati a quelli satellitari e all’orchestrazione in remoto danno vita a carte digitali senza le quali il lavoro dì emergenza di questi mesi sarebbe ancora più lento e complicato.

La prima volta a stretto contatto con la Croce rossa internazionale è stata proprio nelle Filippine. Ma le azioni di Hot sono state utili in diversi altri casi. Perfino in occasione del colpo di Stato in Malidi due anni fa. Fino allo scorso marzo, quand’è arrivata la richiesta d’aiuto di Medici senza frontiere. Tanto per dare un dato, le tre città principali della Guinea già citate sono state mappate in meno di tre giorni. E nel giro di cinque 244 volontari avevano individuato più di 90mila edifici. Ad oggi, in tutta l’Africa occidentale, sono stati collocati al posto giusto 8 milioni di oggetti (edifici, strade, fiumi, campi e altri elementi geografici). “Se riceviamo una richiesta prioritaria siamo spesso in grado di mappare una determinata area spesso in meno di 24 ore” ha aggiunto Buck.

Come molti altri casi di utilizzo intelligente dei dati, Hot è la prova che una delle grandi ricchezze di quest’epoca sono i dati. Ma non lo sono – e in fondo non devono esserlo – solo per i colossi commerciali. Al contrario: l’integrazione fra i primi e il mondo della cooperazione dà forse la prova più tangibile della cosiddetta, spesso tanto decantata e in fondo poco studiata, intelligenza collettiva prodotta dalla Rete. Eccola.

di Simone Cosimi

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